Selma


10/04/2015 - 11/04/2015

Proiezione unica ore 21

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È l’11 marzo1965. Un lungo corteo pacifico sta per attraversare il ponte che dalla città di Selma porta sulla strada per Montgomery. In prima fila cammina Martin Luther King (Davi Oyelowo ). Tutti guardano a lui come si guarda a un capo. Se ne sentono trascinati, confortati, protetti al punto da non temere quello che li aspetta dall’altra parte. Due giorni prima, quando non c’era King a guidarli, sulla loro marcia s’è accanita a sangue la polizia. La televisione ha mostrato le violenze agli Americani, e la loro reazione è stata tale che da lì a qualche settimana il presidente Lyndon B. Johnson (Tom Wilkinson) si deciderà a emanare il suo Voting Rights Act. Ora, però, tutto è ancora incerto, tranne il fatto che oltre il ponte c’è la vittoria contro George Wallace (Tim Roth), governatore segregazionista dell’Alabama. Basta che King continui ad avanzare, e che si porti dietro i suoi. Eppure lui si ferma, si raccoglie in se stesso, poi si gira e torna a Selma. Questa decisione, presa da un leader nel silenzio della coscienza, è il momento più intenso di Selma: la strada per la libertà (Selma, Gran Bretagna e Usa, 2014, 128’). Scritto da Paul Webb, il film di Ava DuVernay racconta i fatti che, nella primavera del 1965, portano alla fine della discriminazione razziale nelle procedure elettorali dei singoli stati americani. E ancor più racconta come il fresco premio Nobel per la pace raccolga il consenso dei suoi, e come li guidi. Non è solo un capo, il King della quarantaduenne regista afroamericana. È anche un uomo preso da dubbi, non sempre capace di ascoltare davvero i militanti che non la pensano come lui, e più d’una volta incerto del proprio diritto a esporre i seguaci alla violenza dei razzisti, e alla morte. Contro il segregazionismo ci si può battere solo con la nonviolenza. Così immagina King, quello di Webb e DuVernay e quello storico (diversa è, a lungo, l’opinione di Malcolm x, mostrato nel film poco prima che lo uccidano). D’altra parte, la nonviolenza richiede azioni dimostrative, provocazioni deliberate. Chiusa e retriva, Selma è la città ideale per questa strategia. King ne è consapevole, ed è consapevole dei rischi che ne vengono. Lui per primo ne sopporta le conseguenze, finendo in galera e ricevendo minacce di morte per la moglie Coretta (Carmen Ejogo) e per i figli. Il suo essere in prima fila, il suo pagare di persona il prezzo delle proprie scelte, tutto questo fonda e giustifica forse il suo diritto a mandare gli altri a morire? Se fosse Mohandas Karamchand Gandhi, se immaginasse la nonviolenza come un valore assoluto, un valore in sé, forse risponderebbe con parole simili a quelle usate dal Mahatma il 28 dicembre 1931: ho avvertito gli Inglesi «che, se per conseguire la libertà devo offrire anche un milione di vite, sono pronto a tale sacrificio senza il minimo rimorso». Ma King non è Gandhi. Per lui la morte non è un’amica né «una soccorritrice» come invece per il leader indiano. King è più vicino a Nelson Mandela, che nel 1961 abbandona la nonviolenza proprio a causa dei morti che ne son seguiti fra i suoi, e sceglie la lotta armata. Come per Mandela, anche per lui la nonviolenza “vale” meno delle vite degli altri. Rischiare la propria, di vita, è certo eroico, ma non capovolge questo giudizio morale, e ancor meno dà il diritto di offrire sacrifici umani al bene della causa, per quanto buona sia. Eccoci di nuovo su quel ponte. Dietro al capo ci sono i suoi: individui particolari, irripetibili, ognuno con una propria storia, propri desideri, proprie speranze. Davanti c’è la vittoria, o l’inizio della vittoria. Il segregazionismo non umilia solo, uccide anche. Lo stesso può fare la polizia, qui e ora. Come si esce da un tale dilemma di morte? Invocando assoluti e principi? E dove starmo scritti, gli uni e gli altri? A King pare che la risposta non stia fuori di lui, ma dentro di lui. E decide, decide per le vite. Poco conta che poi
gli toccherà ricominciare. Così fa un capo, quando è coraggioso e responsabile.
Roberto Escobar – Il sole 24 ore

 

Dopo Malcom X, finalmente è il turno di Martin Luther King: “Selma” non è solo il primo biopic, è un grande film. Senza tinte agiografiche o santini, è il ritratto commosso, vibrante e, sì, partigiano di un campione della parola e della libertà: con merito, la regista Ava DuVernay non elude né elide i difetti di MLK, le scappatelle e l’opportunismo politico. Eppure, non è un ‘one man show’, ma una marcia collettiva, quella del 1965 da Selma a Montgomery per il diritto di voto degli afroamericani: regia piana e partecipe, sceneggiatura ‘per tutti’ e interpretazioni ottime, dal protagonista David Oyelowo al cattivo governatore Tim Roth, passando per il Lyndon B. Johnson di Tom Wilkinson, non passerà forse alla storia del cinema, ma attorno non si vedono giganti, anzi. E non può passare sotto silenzio il trattamento vergognoso, se non colpevole, riservatogli dall’Academy: né Oyelowo, né la DuVernay – sarebbe stata la prima donna nera – sono candidati all’Oscar.
Federico Pontiggia – Il Fatto quotidiano

Regia:

Ava DuVernay

Interpreti:

David Oyelowo (Martin Luther King Jr.), Tom Wilkinson (Presidente Lyndon B. Johnson), Cuba Gooding Jr. (Fred Gray), Alessandro Nivola (John Doar), Carmen Ejogo (Coretta Scott King), Lorraine Toussaint (Amelia Boynton), Tim Roth (Governatore George Wallace), Oprah Winfrey (Annie Lee Cooper), Tessa Thompson (Diane Nash), Giovanni Ribisi (Lee C. White)

Genere:

Drammatico/Storico

Origine:

Gran Bretagna

Anno:

2014

Soggetto e sceneggiatura:

Paul Webb

Fotografia:

Bradford Young

Musica:

John Legend

Montaggio:

Spencer Averick

Durata:

127’

Distribuzione:

Notorius Pictures (2015)