Quel fantastico peggior anno della mia vita


26/02/2016 - 27/02/2016

Proiezione unica ore 21

Acquista i biglietti


Regia: 
Interpreti:
Origine:
Anno:
Soggetto:
Sceneggiatura:
Fotografia:
Musiche:
Montaggio:
Produzione:
Distribuzione:
Durata:


Titolo originale: Me and Earl and Dying Girl Regia: Alfonso Gomez-Rejon; Interpreti: Thomas Mann (Greg Gaines), Olivia Cooke (Rachel), RJ Cyler (Earl), Nick Offerman (Padre di Greg), Molly Shannon (Madre di Rachel), Jon Bernthal (Sig. McCarthy), Connie Britton (Madre di Greg), Matt Bennett (Scott Mayhew), Katherine Hughes (Madison), Masam Holden (Ill Phil); Origine: USA; Anno: 2015; Soggetto: dall’omonimo romanzo di Jesse Andrews; Sceneggiatura: Jesse Andrews; Fotografia: Chung Chung-Hoon; Musica: Brian Eno; Montaggio: David Trachtenberg; – Produzione: Steven Rales, Dan Fogelman, Jeremy Dawson per Rhode Island Ave; Distribuzione: Twentieth Century Fox Italy (2015); Durata: 105’

 

Thomas Mann è un nome impegnativo per un giovane attore, ma il ventiquattrenne interprete di Quel fantastico peggior anno della mia vita lo porta con la spiritosa leggerezza con cui incarna il protagonista Greg, liceale che, per non coinvolgersi più di tanto con la variegata fauna della scuola, ha scelto il profilo basso di essere diplomatico e non legarsi a nessuno. L’unico suo amico è Earl, un ragazzo nero insieme al quale gira amatoriali parodie di classici da Arancia meccanica a Quarto Potere: tutto questo fino al giorno in cui va a far visita a una compagna Rachel (un’incantevole Olivia Cooke), affetta da leucemia. Ma il film di Alfonso Gomez-Rejon (ispirato a un romanzo di Jesse Andrews) non è una fotocopia di Colpa delle stelle: qui la storia d’amore resta sublimata a livello di affettività elettiva; il dolore viene esorcizzato dall’ironia in una dimensione adolescenziale che nei limiti del possibile cerca di mantenersi ludica. Rejon accompagna il gioco fresco degli attori con vivaci movimenti di camera, che non diventano mai invadenti, e squisita finezza psicologica.

(Alessandra Levantesi Kezich – La Stampa)

 

Mettiamola così: state facendo il liceo col massimo impegno e il minimo danno possibile, evitando con cura di farvi picchiare dai ragazzi più grossi, o traumatizzare dalle compagne troppo carine, o lasciarvi incasellare in uno dei detestabili sottogruppi a cui pare oggi ridursi l’adolescenza, quando vostra madre se ne esce con una notizia terribile, ma sul serio. Una vostra compagna ha il cancro, e forse pochi mesi di vita. Dovete andarla a trovare. Cioè vincere l’imbarazzo, dribblare il pietismo, trovare il tono, i gesti, le parole, per passare un po’ di tempo con lei, semplicemente. Anche se per ora non siete amici, né legati in nessun modo. La classica mission impossibile, insomma. Che però genera una delle più lievi, toccanti, divertenti, moderne, credibili, imprevedibili educazioni sentimentali viste al cinema da anni, premiata al Sundance e giustamente osannata dalla stampa di tutto il mondo (bello, ogni tanto, trovarsi in maggioranza).

C’è dietro un romanzo di Jesse Andrews, tradotto da Einaudi con lo stesso titolo del film (in originale Me and Earl and the Dying Girl) e adattato dallo stesso scrittore. Il regista, alla seconda prova, viene dalla bottega di Scorsese (attenti agli omaggi) e ha già una capacità impressionante di maneggiare ogni possibile sfumatura psicologica ed espressiva. Anche perché l’Io narrante, ceto medio riflessivo diremmo qui, ha un padre cinefilo che lo ha tirato su a suon di film di Herzog e Kinski. Mentre il suo inseparabile amico Earl è un afroamericano di estrazione popolare. Ma anche un fantastico attore, scenografo, coregista, eccetera, per le esilaranti cineparodie di film famosi che i due amici girano in casa a getto continuo con mezzi men che di fortuna.

Non pensate al solito film cinefilo per cinefili, però. Il cinema è solo l’esperanto emotivo, la piccola enciclopedia collettiva grazie a cui Greg e Rachel intessono una relazione sempre più lieve e insieme ricca, profonda e consapevole (niente amore, l’amicizia è più difficile da rappresentare). Impossibile non pensare al Giovane Holden naturalmente, anche se qui c’è perfino una nota in più: la felicità. Felicità di fare, amare, creare, malgrado tutto, in ogni circostanza. E senza prediche.

Davvero di che credere ai miracoli. Almeno al cinema.

(Fabio Ferzetti – Il Messaggero)