Neruda


17/02/2017 - 18/02/2017

Proiezione unica ore 21

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Regia: Pablo Larraìn
Interpreti: Luis Gnecco (Pablo Neruda), Gael García Bernal (Oscar Peluchonneau), Mercedes Morán (Delia del Carril), Diego Muñoz (Martínez)
Origine: Cile, Francia, Spagna
Anno: 2016
Soggetto: Guillermo Calderón
Sceneggiatura: Guillermo Calderón
Fotografia: Sergio Armstrong
Musiche: Juan Federico Jusid
Montaggio: Hervé Schneid
Produzione: Fabula, AZ Films, Funny Balloons
Distribuzione: Good Films
Durata: 107


Prima di Jackie, applaudita a Venezia e che arriverà nei cinema italiani l’anno venturo (per favorire la corsa all’Oscar), Pablo Larraín ha diretto un altro ritratto storico – Neruda – lontanissimo dai luoghi comuni delle biografie filmate ma capace di aprirsi con una riflessione bella e affascinante sul rapporto tra i singoli e la Storia e sul fascino della narrazione come specchio (e prigione) per i suoi personaggi. Così, invece di inseguire un’impossibile ansia di esaustività si concentra su una piccola porzione di vita: la fuga del poeta-senatore da Santiago per evitare l’arresto decretato dal presidente Gonzales Videla nel 1948, dopo il celebre discorso “Yo acuso” in difesa dei minatori che il governo aveva fatto imprigionare in veri e propri campi di concentramento.

Se da una parte la sceneggiatura di Guillermo Calderón racconta con una certa disinvoltura le varie tappe della fuga di Neruda, prima nascosto in casa di militanti del Partido Comunista, poi a Valparaiso per cercare di imbarcarsi su una nave e infine sulla cordigliera andina per arrivare in Argentina; dall’altra la regia di Larraín sembra giocare con questa vaghezza cronologica per spostare l’attenzione dello spettatore sul confronto “a distanza” tra il poeta fuggitivo (Luis Gnecco) e il testardo prefetto di polizia Oscar Peluchonneau (Gael García Bernal).

Intanto, qual è la vera faccia di Neruda? La sua vera essenza?

Il film sembra divertirsi a sottolineare le sue contraddizioni umane e politiche. All’inizio lo vediamo nelle sue vesti di senatore comunista, virulentemente contrario a un governo (e a un presidente) che pure aveva contribuito a eleggere. Ma subito dopo ecco il Neruda privato e gaudente mentre anima con la moglie Delia (Mercedes Moran) una festa decisamente libertina. Per non parlare delle sue riconosciute frequentazioni di prostitute e case chiuse. Che “ritratto” se ne può dare? Anche il regista sembra evitare una risposta precisa: a volte gioca con il travestimento, quando si mette una parrucca per evitare di essere riconosciuto della polizia o si trasforma nel ritratto di se stesso, incorniciato dentro la vetrina di un fotografo, ma più spesso lascia che una fonte di luce inondi l’obiettivo fino a sfocare l’immagine e confondere i suoi lineamenti. A ribadire anche esteticamente la difficolta (impossibilità?) di darne un ritratto preciso, di attribuirgli una definizione univoca.

Allo stesso modo l’antagonista ha un’identità che prende forma man mano che la caccia procede e si avvicina sempre più alla sua preda: da poliziotto grigio e ubbidiente diventa un personaggio da film noir, ambiguo e sfuggente, con un occhio che sembra volersi aprire solo a metà (un tic? una metafora?) e che proprio inseguendo Neruda in un bordello confessa di aver avuto una mamma puttana e un padre non così ben identificato. Anche se vuole credere di essere il figlio del commissario Peluchonneau, eroe della polizia cilena immortalato da una statua oggetto dei suoi pellegrinaggi sentimentali.

E il loro inseguimento cosa può diventare, allora? Più che il tradizionale gioco del gatto col topo – dove per altro è difficile decidere chi sia chi – la caccia diventa il ring dove ognuno dei due contendenti cerca di avere il sopravvento sull’altro. E siccome la storia li fa solo sfiorare, lo scontro è soprattutto psicologico, immaginifico, ai limiti del metafisico. Come Pollicino, Neruda lascia nei luoghi della sua fuga copie dei propri libri che Peluchonneau raccoglie e legge, conoscendo ogni volta un po’ di più il suo fuggiasco e insieme facendosene affascinare e conquistare. E più si avvicina alla sua preda più prende la forma di un personaggio “nerudiano”, di un “eroe” letterario più che reale.

Così Larraín, che gioca con il tempo (difficile capire dal film che quella fuga durò tredici mesi) e con lo spazio (cambiando spesso ambientazioni, per finire su una cordigliera innevata che sembra il Montana del vecchio West), trasforma un fatto storico in una riflessione sulla forza della poesia e usa la materia romanzesca del film per continuare la sua ricerca sulla forza dell’immagine e su come l’apparire finisca per dare nuove forme anche alla realtà.

(Paolo Mereghetti – Il Corriere della Sera)