Cafè society


09/12/2016 - 10/12/2016

Proiezione unica ore 21

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Regia: Woody Allen
Interpreti: Jesse Eisenberg (Bobby Dorfman), Kristen Stewart (Vonnie), Jeannie Berlin (Rose Dorfman), Steve Carell (Phil Stern), Blake Lively (Veronica), Parker Posey (Rad Taylor), Corey Stoll (Ben Dorfman)
Origine: Stati Uniti
Anno: 2016
Soggetto:
Sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Vittorio Storaro
Musiche:
Montaggio: Alisa Lepselter
Produzione: Gravier productions
Distribuzione: Warner bros Pictures italia
Durata: 96


E ora non dite che Woody Allen fa sempre lo stesso film. Prima o poi ci siamo cascati tutti ed è vero che se sforni un titolo l’anno non sempre sono capolavori. Però con Cafè Society il grande newyorkese torna davvero alla sua forma migliore, quella di grandi film al passato come Radio Days, Zelig o La rosa purpurea del Cairo. E rimescolando il solito mazzo di carte infallibili comunica un senso di rimpianto per un’epoca irripetibile che non sfocia nell’elegia solo perché è e resta una commedia. C’è il jazz, c’è l’America anni Trenta, c’è una famiglia ebrea soffocante e insieme adorabile (Woody ormai guarda alle cose della vita con la serena indulgenza dei suoi ottant’anni), ci sono le trappole del destino e i dilemmi della morale. Insomma il meglio dell’Allen di oggi e di ieri, in un film ambientato ottant’anni fa ma più vicino di tanti lavori al presente. Jesse Eisenberg, sempre più sorprendente, è lo sprovveduto Bobby, piccolo ebreo newyorkese che lascia il Bronx per tentare la sorte a Hllywood da suo zio Phil (Steve Carell), potete agente cinematografico. Basterebbe la scena in cui l’ignaro Phil riceve la telefonata della sorella, durante un party a Beverly Hills, a dire la bellezza di questo film tutto sottotraccia, che lascia intendere sempre più di quanto spieghi. Il tono infatti è brillante. Le conseguenze saranno drammatiche, anche se pochi lo sapranno. Dettaglio chiave: nulla di ciò che accade è di per sé comico, è lo sguardo di Woody, cioè il nostro, a cogliere l’ironia involontaria e a volte tragica delle situazioni. Perché «la vita è una commedia scritta da un sadico», come dice Bobby, e il massimo sadismo è non darle nemmeno un vero finale lasciando ognuno nel suo brodo. È il lato “filosofico” dell’ultimo Allen, esplicito in film come Irrational Man, e sapientemente fuso con l’intreccio in affreschi più ampi come questo. Anche se qui la vicenda centrale si sfrangia in una serie di sottotrame solo apparentemente secondarie. (…) Così, tra battute d’epoca («Può andare a letto con chi vuole, non avrà mai la parte. Le sue cosce non sono Mgm»), tramonti a Central Park (le luci struggenti sono firmate Storaro) e omaggi a Barbara Stanwyck, la star più moderna dell’epoca, Café Society corre verso un epilogo di gusto molto contemporaneo che lascia tutti sospesi sull’’orlo dell’abisso, personale e globale (gli anni 30 volgono al termine, la guerra è alle porte). Suprema ironia, questo film sulle Majors di una volta è prodotto da Amazon e dominato da un attore lanciato dal ruolo di Mark Zuckerberg. Ogni film in costume parla del presente.

(Fabio Ferzetti – Il Messaggero)

 

Con Café Society, Woody Allen ci regala un film – il 47o da lui diretto – che è un puro distillato del suo cinema: amore e nevrosi, New York contro Los Angeles, sguardo ironico-nostalgico sulla mitica Hollywood degli anni Trenta, ritratto umoristico di una tipica famigliona ebraica, etica e compromesso, fede a ateismo, crimini e misfatti. Solo che ora l’ottantenne cineasta sembra affrontare il sempiterno rovello del dubbio e le interne contraddizioni dell’essere (e del non essere) con un più stoico atteggiamento di accettazione. Vedi il caso del giovane ebreo newyorkese Bobby (Jesse Eisenberg) che, approdato a Hollywood sull’attrattiva del mondo divistico, vi scopre l’amore nella persona di Vonnie (Kristen Stewart), segretaria, di bellezza per nulla artefatta, del di lui zio Phil (Steve Carell), famoso agente di attori. La fanciulla però si confessa coinvolta con un altro: di qui rottura, rientro di Bobby a New York, e sua rapida carriera come gestore di un locale di successo – il Café Society del titolo – aperto dal fratello maggiore che di professione fa il gangster. Quando dopo anni si incontrano di nuovo, i due sono assorbiti nelle rispettive routine matrimoniali. Si amano ancora? Oppure provano rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato? In ogni modo i ragazzi di allora non esistono più. Narrato dalla voce fuori campo di un onnisciente osservatore (nell’originale Woody stesso), il film procede sul filo degli eventi a passo svelto, intonandosi al ritmo swing della colonna sonora; mentre gli interpreti incarnano i personaggi con perfetta misura e Vittorio Storaro gioca sul digitale per imprimere alla fotografia un algido fascino retrò. Si può preferire l’iper-nevrotico battutista degli esordi, oppure il cineasta più equilibrato e complesso della maturità, a questo Allen della terza età che, con piena padronanza formale, riflette sull’imponderabile mistero della vita (e della morte), muovendo i protagonisti come ideali marionette e ricorrendo al motto di spirito per esorcizzare il dramma. Ma Cafe Society è comunque una commedia da non perdere: divertente e amara, leggera e inquietante, suggerisce (per dirla con Svevo) che in fondo la vita non è bella né brutta, ma solo originale.

(Alessandra Levantesi Kezich – La Stampa)