Volevo nascondermi


30/10/2020 - 31/10/2020

Proiezione unica ore 21
EVENTO ANNULLATO per DPCM 24 ottobre

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Regia: Giorgio Diritti
Interpreti: Elio Germano, Oliver Ewy, Paola Lavini, Gianni Fantoni, Duilio Pizzocchi, Pietro Traldi, Leonardo Carrozzo, Orietta Notari
Origine: Italia
Anno: 2020
Soggetto:
Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Tania Pedroni, Fredo Valla
Fotografia: Matteo Cocco
Musiche: Marco Biscarini
Montaggio:
Produzione:
Distribuzione:
Durata: 120


Possiamo esaltare, criticare e persino sottovalutare l’opera di Antonio Ligabue, scrive nel 1981 Marino Mazzacurati, ma sempre ci sfugge qualcosa, «quella magia che alcuni riescono talvolta a captare nel cosmo e a trasmettere agli altri, e che va al di là dello spazio e del tempo». Ora lo ritroviamo, lo scultore Mazzacurati (Pietro Traldi), mentre si imbatte nel matt, come lo chiamano a Gualtieri. Siamo nella prima parte di Volevo nascondermi. È l’inverno del 1928. Ligabue (Elio Germano) sta rintanato in una golena del Po, lontano da un mondo che lo rifiuta e lo spaventa. Lì lo incontra Mazzacurati. Lui lo guarda da lontano, sospettoso, e solo dopo giorni si convince a passare i mesi più freddi nella casa della madre dello scultore. Inizia così la sua lenta riemersione dalla più disperata delle solitudini. Con i suoi cosceneggiatori Fredo Valla e Tania Pedroni, Giorgio Diritti cerca la magia di Antonio, anzi di Toni. Lo fa raccontando la sua vita, a partire dall’infanzia.
Nato a Zurigo nel 1899 da genitori italiani, è subito dato in affido a Johannes Valentin Göbel ed Elise Hanselmann (Dagny Gioulami), che sempre considererà come madre, per quanto il loro rapporto sia spesso duro e complicato. Espulso dalla Svizzera nel 1919 – pare a seguito di una denuncia alla polizia da parte di Elise, da lui aggredita -, viene mandato dalle autorità italiane a Gualtieri, paese natale del padre. E a Gualtieri, oltre che come al matt, è additato come al tedesch: né del tutto svizzero né del tutto italiano, isolato per via del suo aspetto, delle sue paure, della sua parlata indecifrabile.
In ogni caso, e per fortuna, Volevo nascondermi non è un film biografico. Il suo racconto e la sua ricerca di quella tale grazia non stanno dentro i fatti della vita di Ligabue, e neppure dentro il suo disagio psichico. Già dall’inizio, la macchina da presa di Diritti intuisce, ama ed esprime qualcosa in lui che, con Mazzacurati, ben si può dire al di là del tempo e dello spazio.
Per quanto straniero agli altri e a se stesso, qualcosa in lui resta fermo, prepotente. A noi pare si tratti del suo desiderio di appartenere comunque alla vita, a quanto sente vivere. In questo, anche in questo, Germano è tanto bravo da essere sorprendente. Il suo Toni non dipinge, non modella la sabbia del Po dopo averla masticata per renderla più morbida e compatta. Fa molto di più, diventa lui stesso, con il suo corpo, una tigre, un gallo, una volpe. Prima dell’opera, dipinge e modella se stesso, fa di se stesso l’oggetto vivo del suo dipingere e del suo modellare, fa di se stesso e del suo corpo quella tigre, quel gallo, quella volpe. Allo stesso modo, e per paradosso, tutto questo gli accade anche quando si misura con un autoritratto. Non è Toni che dipinge Toni, è Toni che diventa Toni, e che poi si dipinge. Quanto a Diritti, la sua macchina da presa sembra imitarlo, e gli sta addosso come se volesse diventare lui che diventa una tigre, un gallo, una volpe, o lui che diventa se stesso.
Il resto, pur raccontato splendidamente, e splendidamente fotografato da Matteo Cocco – la pianura, le corti, le piazze, i visi -, passa in secondo piano. Quello che domina, e che riluce, è la grazia: inspiegabile, immediata, estranea al tempo e allo spazio come il grido silenzioso di un pittore morente che sale alto nel cielo del Po, e vola a confondersi nella sabbia delle sue golene.
Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore

La vita di Antonio Ligabue, il pittore naïf di origini svizzere nato da due emigrati italiani, racchiude una molteplicità di temi, ancora oggi attualissimi, che non sono sfuggiti all’esame attento di un regista scrupoloso, preciso e bravo come Giorgio Diritti. Il maestro bolognese, già apprezzato per lo splendido L’uomo che verrà, dalla filmografia tanto parca quanto altamente qualitativa anche negli altri titoli in repertorio, ha affidato il ruolo dell’artista a un fuoriclasse come Elio Germano che lo ha trasformato in un Orso d’argento al Festival di Berlino, per la prima volta diretto da un italiano, Carlo Chatrian. Ne è uscito un film di ottimo livello che restituisce all’arte cinematografica e pittorica uno spessore considerevole. Il pregio maggiore è aver saputo cogliere nella vita di un personaggio discusso e ingiustamente sottovalutato aspetti che hanno un ruolo dominante nella società di oggi. Il bullismo di cui Ligabue è vittima da bambino e da adulto. L’amore per gli animali. L’anaffettività dei genitori adottivi che lo prendono in affido per denaro. La follia che lo rende zimbello di chi calpesta la sua dignità di essere umano. E perfino non aver diritto ai sogni. Nella fattispecie, non poter sposare la donna che ama a dispetto di un’unione finta con un concetto di bellezza socialmente condivisa, anziché con una creatura in carne e ossa realmente desiderata. E nel secolo della mercificazione di sensi e affetti non è denuncia di poco conto.
Stefano Giani, Il giornale