Tre manifesti a Ebbing, Missouri


13/04/2018 - 14/04/2018

Proiezione unica ore 21
Vincitore di 2 premi Oscar 2018

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Regia: Martin McDonagh
Interpreti: Frances McDormand - Mildred Haynes, Woody Harrelson - Bill Willoughby, capo della Polizia, Sam Rockwell - Agente Dixon, Abbie Cornish - Anne Willoughby, Lucas Hedges - Robbie, Zeljko Ivanek - Cedric, Caleb Landry Jones - Red Welby, Clarke Peters - Abercrombie, Samara Weaving - Penelope, Peter Dinklage - James, John Hawkes - Charlie, Amanda Warren - Denise, Kerry Condon - Pamela, Michael Aaron Milligan - Pal, Lawrence Turner - Tony, Jerry Winsett - Geoffrey, Malaya Rivera Drew - Gabriella Forrester, Darrell Britt-Gibson - Jerome, Nick Searcy - Padre Montgomery, Sandy Martin - Mama Dixon, Kathryn Newton - Angela
Origine: Regno Unito
Anno: 2017
Soggetto:
Sceneggiatura: Martin McDonagh
Fotografia: Ben Davis
Musiche: Carter Burwell
Montaggio: Jon Gregory
Produzione: Blueprint Pictures
Distribuzione: 20th Century Fox
Durata: 121


Il film ideale non esiste perché davanti a uno schermo siamo tutti diversi. Invece la sceneggiatura ideale forse sì e in tal caso assomiglierebbe certo a quella di Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Tralasciando la messe di premi importanti che ha ottenuto e continuerà a ottenere, questo torbido thriller venato di humour nero (che sarebbe meglio vedere nella versione originale sottotitolata) riesce, infatti, a scolpire l’indimenticabile ritratto di una donna che sopravvive, pensa e lotta in una landa selvaggia come un moderno cowboy, rendendola il fulcro narrativo di un gruppo di  personaggi altrettanto spiazzanti e perturbanti.
Il controllo stilistico, l’intelligenza psicologica e la libertà morale con cui il quarantasettenne commediografo, sceneggiatore e regista inglese di origini irlandesi Martin McDonagh mette in scena la sua ballata di dolori, odi e vendette nello spazio tanto realistico quanto metaforico di una sperduta cittadina dell’America profonda hanno, di fatto, pochi riscontri nel cinema (non solo) americano d’oggi, tanto che i capidopera di Lynch, Tarantino e Coen potranno d’ora in poi sembrare al massimo affini piuttosto che modelli originali ricalcati. Anche perché – come succede ormai di rado sia nei prodotti d’autore, sia in quelli d’evasione – la propulsione drammaturgica è garantita dal continuo mescolarsi delle situazioni estreme con il mordente di caratteri in grado di evolversi, specchiarsi e persino ribaltarsi senza l’ossessione di doverne spremere significati, soluzioni, messaggi uniformi o peggio edificanti.
Esacerbata dall’atroce assassinio della figlia, umiliata e offesa dall’ex marito e convinta dell’inefficienza della polizia locale, l’indomita Mildred, infagottata in una tuta blu e con in testa una  bandana, è disposta – proprio come i pistoleri western marchiati a vita da una colpa – a usare le maniere forti contro chiunque si frapponga al suo desiderio di giustizia. Per lei pari sono, per esempio, il tollerante sceriffo Willoughby (Harrelson) malato terminale e lo sbirro razzista plagiato dalla madre megera Dixon (Rockwell): nessuno come la McDormand avrebbe potuto incarnare con sfumature più svariate questa nemica di tutti e innanzitutto di se stessa, capace di rendere l’atmosfera epica anche solo con una frase simile a una coltellata o un guizzo incoercibile del volto pietrificato dalla disperazione e dalla rabbia. Ogni colpo di scena, ogni gesto inconsulto, così, sembrano mirati a rassicurare lo spettatore prospettandogli quantomeno una catarsi; ma ogni volta il film riprende a picchiare duro all’ombra dei tre cartelloni su cui sono vergate come col sangue le richieste di Mildred, le uniche che hanno avuto il fegato di prendere di petto i segreti di una sorta di Twin Peaks traboccante di ostilità primigenie. In questo formidabile film, insieme al più alto livello di genere e d’autore, nemmeno il finale cede d’un passo abolendo la consueta illusione di poterci indicare la via giusta per l’umana redenzione.
Valerio Caprara, Il Mattino

I colpi di scena non mancano nel film, a volte conducono lo spettatore lungo piste che poi si rivelano controproducenti o mettono in risalto facce inaspettate del personaggi, non sempre così  schematici come potrebbero sembrare a prima vista. Tante sorprese che la sceneggiatura dosa con l’esperienza di chi si è fatto le ossa a teatro (McDonagh ha vinto con le sue pièce ben tre Laurence Olivier Awards, i più importanti premi teatrali inglesi) e ha affinato la sensibilità per l’imprevisto e i cambiamenti di tono. Perché uno dei meriti del film è anche la capacità di passare dai toni della commedia a quelli del dramma, dalla farsa alla commozione, pronto a lenire con un inatteso ricorso al sorriso – se non proprio alla risata – l’effetto della tragedia che aleggia su tutta la storia. L’altra grande qualità del film è la prova collettiva del cast. Se Frances McDormand sta collezionando meritatamente nomination e premi, Woody Harrelson e Sam Rockwell non le sono da meno, perfetti nel restituire quella ruvidezza e insieme quella carica di empatia che inchiodano lo spettatore allo schermo, senza perdere un fotogramma di questo miscuglio di rabbie e di vendette, di inaspettate generosità e di sorprese.
Il che ci porta all’ultimo grande merito di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, e cioè la capacità di recuperare, rinnovandola, la grande tradizione del cinema di genere. Che non vuol dire la sagra dei luoghi comuni e delle strizzatine d’occhio citazioniste, ma la capacità di raccontare una storia che sappia interessare e appassionare senza dimenticare di scavare più a fondo, capace di aprire l’intelligenza dello spettatore verso altri percorsi (e perché no, riflessioni), con una ricchezza di spunti affascinanti e coinvolgenti.
Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera

Premio Oscar 2018 a Frances McDormand come migliore attrice protagonista e a Sam Rockwell come migliore attore non protagonista