The French Dispatch


04/03/2022 - 05/03/2022

Proiezione unica ore 21

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Regia: Wes Anderson
Interpreti: Benicio Del Toro - Moses Rosenthaler, Adrien Brody - Julien Cadazio, Tilda Swinton - J.K.L. Berensen, Léa Seydoux - Simone, Frances McDormand - Lucinda Krementz, Timothée Chalamet - Zeffirelli, Lyna Khoudri - Juliette, Jeffrey Wright - Roebuck Wright, Mathieu Amalric - Commissario, Stephen Park - Tenente Nescafier, Bill Murray - Arthur Howitzer Jr., Owen Wilson - Herbsaint Salzerac, Liev Schreiber - Conduttore Talk Show, Elisabeth Moss - Alumna, Edward Norton - Rapitore, Willem Dafoe - Prigioniero, Lois Smith - Upshur Clampette, Saoirse Ronan - Showgirl, Christoph Waltz - Paul Duval, Cécile de France - Mrs. B, Guillaume Gallienne - Mr. B, Jason Schwartzman - Hermes Jones, Tony Revolori , Rupert Friend - Sergente Istruttore, Henry Winkler - Zio Joe, Bob Balaban - Zio Nick, Hippolyte Girardot - Chou-fleur, Anjelica Huston - Narratrice (V.O.), Fisher Stevens - Consulente legale, Griffin Dunne - Story Editor, Denis Ménochet
Origine: Stati Uniti, Germania
Anno: 2021
Soggetto: Wes Anderson, Jason Schwartzman, Hugo Guinness, Roman Coppola
Sceneggiatura: Wes Anderson
Fotografia: Robert D. Yeoman
Musiche: Alexandre Desplat
Montaggio: Andrew Weisblum
Produzione: Indian Paintbrush
Distribuzione: Walt Disney Italia
Durata: 108


Come definire quel peculiare universo poetico che è il cinema di Wes Anderson: irreale, iperreale, surreale, fiabesco? Di certo i suoi film riproducono con ossessiva cura del dettaglio una copia immaginaria del nostro mondo, ruotando in chiave di sommessa malinconia e imperturbabile umorismo sul mistero dell’esistenza. Girata in un bianco e nero che a tratti trasmuta in colore, The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun è una pellicola in tre episodi incastonati nella cornice di una redazione: quella della rivista del titolo, fondata nell’immaginaria cittadina di Ennui-sur-Blasé dall’americano Bill Murray. Il quale è appena deceduto lasciando l’espressa volontà di venir commemorato con la riedizione speciale di tre articoli del passato. Sulla voce dei cronisti Tilda Swinton, Frances McDormand e Jeffrey Wright, le storie raccontano rispettivamente l’amena ascesa a pittore di grido del folle omicida Benicio del Toro, che in carcere ha trovato la sua musa nella secondina Lea Seydoux e il suo sponsor nel gallerista Adrien Brody; il fatale maggio parigino dell’agiato studente Timothée Chalamet; e un bizzarro rapimento che coinvolge il commissario gourmet Mathieu Amalric e il suo cuoco Steve Park. Il tutto arricchito di numerosi cammei di amici attori, da Edward Norton e Saoirse Ronan, pronti a farsi puri elementi di composizione dell’incantevole teatrino allestito da Anderson. Il cui raffinato perfezionismo formale rischierebbe di congelare le emozioni, se non fosse per lo stratificato sentimento di nostalgia che lo permea: nostalgia di bellezza perduta, nostalgia degli Anni 60, nostalgia della «festa mobile» degli americani in Francia, da Hemingway a James Baldwin; nostalgia del mitico The New Yorker di Harold Ross e Wallace Shawn e di quel grande giornalismo grazie al quale piccoli fatti di cultura e di vita si tramutano in eventi consegnati alla memoria.
Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa

C’era una volta Max Fischer, che in Rushmore scarabocchiava la Tour Eiffel sul quaderno, ascoltava Yves Montand e sfoderava baschetti e «c’est la vie»: la Francia di Ennui-sur-Blasé, immaginaria località sede del “French Dispatch”, è sempre quella vera come la finzione che i personaggi di Wes Anderson sognano dall’inizio della sua filmografia. Una patria putativa inconoscibile, un patchwork di suggestioni, pregiudizi e cartoline, filtrato, come tutta la geografia del regista texano, dall’immaginario: non solo cinematografico (e qui si spazia da Tati a Godard a Clouzot), ma anche fumettistico (Hergé) e soprattutto sfogliabile, perché il film, che ha come perno l’eccentrica redazione francese di una rivista originaria del Kansas, è anche l’omaggio definitivo di Anderson a uno dei suoi punti di riferimento sempiterni, il “New Yorker”, con la sua eleganza tipografica e le sue illustrazioni. Un film a episodi (l’ispirazione dichiarata è L’oro di Napoli), uno per ciascun articolo firmato da uno dei reporter-flâneur del “French Dispatch”: la storia di un detenuto trasformato in stella delle gallerie d’arte (trama in parte ripescata da un vecchio progetto di Anderson, The Rosenthaler Suite); una manifesto rivisto & corretto delle contestazioni sessantottine; l’avventura poliziesca di un critico gastronomico. Americani come lo sguardo del regista, i giornalisti del “Dispatch” guardano l’Europa, la sua cultura, il suo cibo senza realmente capirli, senza riuscire a conoscerli, travisandoli, anzi, con furia narrativa ora gioiosa, ora quasi mortifera. Il più cerebrale lavoro di Anderson porta a compimento il suo discorso, ormai lungo dieci film, sulle immagini mediate e sull’incapacità della sua generazione (e di quelle a seguire) di toccare il mondo con mano, di esperirlo senza che un bagaglio di già visto-già letto si sovrapponga all’immediatezza del reale. Ennui è l’ennesimo plastico a grandezza reale, un mondo chiuso, iperdettagliato e tanto maniacalmente realistico quanto avulso dalla realtà. E dalla Storia: Juliette e Zeffirelli, rivali e poi amanti durante la rivoluzione studentesca che colloca a Ennui il Maggio francese, sono la versione cresciuta di Susy e Sam di Moonrise Kingdom, che si svolgeva nel 1965 e anticipava le contestazioni, e per Anderson il Sessantotto è un luogo impastato di Godard e Gauloises, svuotato di senso politico, davanti al quale dichiara, con mestizia (è questo il suo film meno allegro, meno vitale, più raggelato in statici tableau vivant) e sincerità, la sua resa. Solo un altro album illustrato da sfogliare, un museo di curiosità da visitare, una Wunderkammer dove la Storia si fa attrazione, come accadeva nella mostra Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori da Anderson curata; quel che resta è raccontarla, metterla in bella forma, impaginarla, per poter abitare, con disperato conforto, almeno quel modello in scala, quella storia minuscola di cui si ha il controllo. In quadri affollati di divicartoon (corpi attoriali ormai mossi come pupazzi in stop motion) e di caratteri tipografici (è un film da leggere, non leggero), i giornalisti-alter ego del regista fanno quello che da sempre fa lui: fare dello stile (che è estasi e resa) sostanza.
Ilaria Feole, FilmTV