Il verdetto – The Children Act


22/02/2019 - 23/02/2019

Proiezione unica ore 21

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Regia: Richard Eyre
Interpreti: Emma Thompson - Fiona Maye, Stanley Tucci - Jack, Fionn Whitehead - Adam Henry, Ben Chaplin - Kevin Henry, Rupert Vansittart - Sherwood Runcie, Rosie Boore - Sarah, Anthony Calf - Mark Berner, Jason Watkins - Nigel Pauling, Nikki Amuka-Bird - Amadia Kalu QC, Dominic Carter - Roger, Nicholas Jones - Rodney Carter, Rosie Cavaliero - Marina Green, Eileen Walsh - Naomi Henry, Andrew Havill - George, Daniel Tuite - Sebastian, Paul Jesson - Humphrey, Michele Austin - Donna, Wendy Nottingham - Laura, Micah Balfour - Blackwell, Alex Felton - Toby, Naomi Frederick - Amanda, Paul Bigley - Colin, Ian Kelly - Sig. Soames, Stacha Hicks - Jill, Shaquille Ali-Yebuah - Jake, Syreeta Kumar - Moira, Simon Thorp - Hugh, Anjana Vasan - Kate, Scott Davidson - Paul Rotman, Henrietta Clemett - Phoebe, Radhika Aggarwal - Emy, Peter Forbes - James McLeish, Reena Lalbihari - Samaira, Paul Kemble - Keith, Amelie Green - Maisie, Michael Thomas (III) - Michael Morrow, Melody Green - Sally, Cathy Howse - Kathy, David Webber - Ted
Origine: Gran Bretagna
Anno: 2017
Soggetto: romanzo "La ballata di Adam Henry" di Ian McEwan (ed. Einaudi)
Sceneggiatura: Ian McEwan
Fotografia: Andrew Dunn
Musiche: Stephen Warbeck
Montaggio: Daniel Farrell
Produzione: Toledo Productions, BBC Films
Distribuzione: BIM
Durata: 105


Maniaci dell’adrenalina: astenersi. Amanti dell’intelligenza cinematografica: mettersi in fila. Il nuovo film di Richard Eyre, Il verdetto (già annunciato come The Children Act – La ballata di Adam Henry, rispettivamente il titolo originale e quello italiano del libro di Ian McEwan da cui è tratto) potrà sembrare a qualcuno «troppo scritto», magari anche un po’ «vecchio stile» ma è un tale piacere da vedere che ogni possibile appunto finisce per scivolar via. Ripeto: bisogna apprezzare un cinema di tipo classico, costruito secondo le sue regole d’oro, con la presentazione dei personaggi – qui una giudice e un giovane imputato con, in secondo pian, il marito della magistrata – poi l’insorgere di un problema capace di mettere in discussione le scelte professionali della protagonista (ma anche di aprire qualche crepa in quelle private) e infine il tentativo di soluzione o almeno di riconciliazione degli opposti, visto che non siamo più negli anni in cui l’happy ending era un obbligo di legge.
Una storia che fila via dall’inizio alla fine, senza intoppi se non quelli inventati dallo sceneggiatore (lo stesso romanziere: Ian McEwan) e messi in scena dal regista, ma che alla fine ti fa dire: perché in Italia non siamo capaci di fare un film così? E soprattutto: perché in Italia non abbiamo un’attrice così? Sì, perché una buona parte del fascino di Il verdetto sta nella prova di Emma Thompson, straordinariamente vera e appassionante in un ruolo che sulla carta rischiava di essere respingente.
Giudice dell’Alta Corte londinese, a capo della Family Division, Fiona Maye fa capire fin dalle primissime scene di aver sacrificato il marito al lavoro: fredda, metodica, razionale, ricorda a tutti, a cominciare dallo spettatore, che «in tribunale si applica la legge e non la morale» frenando così ogni possibile empatia. McEwan e Eyre ne fanno uno di quei campioni del proprio lavoro e del proprio dovere che nemmeno la prospettiva di veder fallire il matrimonio sembra capace di mettere in crisi. A sconfiggerla, potrà essere solo il lavoro e il dovere, sotto forma di un caso che non si chiuderà come i precedenti dopo la sentenza.
Anche qui sta l’intelligenza del film (e del libro da cui è tratto, che però la sceneggiatura non segue pedissequamente), nell’evitare cioè ogni deriva melodrammatica e «costringere» la sua protagonista a provare sulla pelle – e sul suo cuore – le conseguenze di quella rigidità dietro cui cerca di proteggersi. Se l’abbiamo vista all’inizio del film capace di evitare ogni «ricatto» emotivo (e mediatico) di fronte al caso di due neonati siamesi, allo stesso modo la donna pensa di poter fare dopo la sentenza su un minorenne che, in nome della sua fede (è testimone di Geova, come i genitori), vuole rifiutare cure che comportino delle trasfusioni. Ma quello che Fiona pensava di aver chiuso dentro le stanze del tribunale, si materializza fuori, costringendola a fare i conti con le conseguenze delle proprie decisioni. Professionali ma anche private visto che il marito l’accusa dello stesso «peccato» di cui le scrive il giovane e imputato: non accettare il contraddittorio, non spiegarsi.
Come queste cose prendano forma nel film lo lasciamo al piacere della visione. Qui vale la pena di sottolineare l’efficace semplicità di una regia che si mette al servizio dei propri interpreti (la Thompson naturalmente, ma anche Stanley Tucci nei panni del marito, Fionn Whitehead in quelli del giovane che rifiuta le cure e il solo apparentemente secondario Jason Watkins nel ruolo dell’assistente segretario) e che a volte può sembrare fin scontata nelle sue scelte (Bach che accompagna la scena della trasfusione obbligata). Ma che si rivela essenziale per esaltare la prova di recitazione di una strepitosa Emma Thompson: senza far ricorso alle parole, sa trasmettere con la sola mimica corporea l’idea di una donna «prigioniera» di se stessa e delle proprie convinzioni, bloccata dalla propria austerità e da un ruolo che non la abbandona nemmeno quando è sola in casa. Sempre seria e composta, almeno fino a quando saranno il dolore e le lacrime a farle cadere la maschera che si è imposta.
Paolo Mereghetti, Corriere della Sera