All We Imagine As Light – Amore A Mumbai

All We Imagine as Light


15/11/2024 - 16/11/2024

Proiezione unica ore 21

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Regia: Payal Kapadia
Interpreti: Kani Kusruti - Prabha, Divya Prabha - Anu, Chhaya Kadam - Parvaty, Hridhu Haroon - Shiz
Origine: Francia, India, Paesi Bassi, Lussemburgo, Italia
Anno: 2024
Soggetto:
Sceneggiatura: Payal Kapadia
Fotografia: Ranabir Das
Musiche: Dhritiman Das
Montaggio: Clément Pinteaux
Produzione:
Distribuzione:
Durata: 111


Avete presente quei film che possiedono innata e spontanea grazia? Che da dovunque li prendi e li vedi, anche solo singole sequenze o singole inquadrature, senza sapere nulla del resto, ti fermi, rimani rapito e dici «che meraviglia»? Ecco, Amore a Mumbai (meglio il titolo originale All we imagine as light) è uno di quei film lì. Sarebbe bello entrare in un cinema e scoprirlo minuto dopo minuto senza sapere nulla, sorpresi da quella magia che le storie apparentemente e geograficamente lontane possono ancora trasmetterti. Ebbene l’opera prima della regista indiana Payal Kapadia è ambientata nella prima parte a Mumbai e nella seconda in un villaggio sulla costa del distretto di Ratnagiri.

Due infermiere di un grande ospedale della metropoli indiana condividono un piccolo appartamento. Prabha (Kani Kusruti) è una quarantenne apparentemente disillusa dalla vita, con un marito migrato in Germania da tempo e che non sente più; mentre Anu (Divya Brabha) ha trent’anni, è solare, giocosa e amoreggia con un bel giovanotto evitando di seguire una famiglia che vorrebbe imporgli un marito. A loro si aggiunge Parvaty (Chhaya Kadam) un’inserviente più anziana dell’ospedale che non riuscendo più a dimostrare di abitare in una casa posseduta dal marito defunto viene sfrattata dai costruttori di un megacomplesso vip.

Kapadia immerge le sue donne, il sottile filo che naturalmente sembra legarle, il rispetto per un’emancipazione mai esibita ma tenace, nel brulicare della metropoli occidentale di Mumbai. Lo sguardo sul caos cittadino nel periodo monsonico è moderno e poetico, per nulla accigliato o severo, comunque straordinariamente coinvolgente. Tra primi piani delle protagoniste, mezzi busti per la vita d’ospedale e quella tra la folla di un bus, carrellate laterali sull’insieme sempre illuminato e vitale di banchetti e negozi, Kapadia costruisce dense e sinuose pennellate visive per un racconto di sentimenti sfuggenti e timidamente inseguiti, di generoso sostegno amicale oltre le differenze di età. Poi all’improvviso, Prabha e Anu accompagnano Parvaty nel suo villaggio natio dove tornerà a lavorare e vivere, e lì entrambe troveranno una sorta di epifania dello spirito e dell’essere, lontana dalle inseguite illusioni cittadine. Così il film slitta all’interno di un ambiente più selvaggio e spurio per nulla miserabile, in uno spazio costiero post monsonico quasi disabitato. Da un iniziale minuetto tutto sulle punte e sugli angoli urbani si scivola in un magmatico sciabordio acquatico rossastro roccioso. Dal quadro elegantemente pieno a quello apparentemente vuoto. Un gioco di prestigio cinematografico che è come il numero di un mago: ogni breve digressione narrativa, ogni dettaglio animale, naturale, ambientale (le scritte sulle rocce illuminate da uno smartphone) appaiono mute e dirompenti come da dentro un prezioso scrigno. Non c’è nulla in Amore a Mumbai che zoppichi, deluda, annoi. C’è invece un tutto così complesso e stratificato, amalgama di pochissime parole, sguardi di un’intensità sconvolgente, tonalità fotografiche che esaltano il contrasto tra oscurità e luce, zampilli dapprima di un pianoforte per la metropoli e poi sound eclettico più d’atmosfera (Topshe è l’autore), tanto da urlare dalla gioia di poterlo vedere. Co-produzione indiano-francese che ha vinto il Grand Prix all’ultima Cannes e che diventa da oggi per noi Palma del cuore. Kusruti (volto di molto cinema d’autore) e Brabha (idolo di serie popolari e seguitissime) potrebbero insegnare il mestiere alle colleghe hollywoodiane e soprattutto italiane.

Davide Turrini, Il Fatto Quotidiano

 

All We Image As Light, primo lungo di finzione dell’indiana Payal Kapadia, è un film di viaggio. Il movimento è molteplice, letterale e simbolico: dalla città alla campagna, dal molto grande al molto piccolo, dal collettivo all’individuale. Il prologo introduce la prima protagonista del film, che è Mumbai. Come una bestia inquieta, febbricitante e affamata di vita, la megalopoli è un formicaio di storie e di volti, che la macchina da presa attraversa come in trance. Sfrecciano le auto e i motorini, si susseguono le insegne dei negozi, e intanto voci senza nome tessono una trama sonora di memorie, impressioni, racconti: è lo spirito di Mumbai a parlare, intonando la sua sinfonia urbana.

Ma ecco che dal coro si levano due voci soliste, ed è compiuto il primo movimento. Anu è un’apprendista infermiera, indù innamorata di un musulmano; la collega Prabha, altrettanto sfortunata in amore, è sposata a un uomo che se n’è andato in Germania, lasciandola a convivere con un’ombra ingombrante. Dalla moltitudine indistinta, lo sguardo si stringe su due vite parallele, ordinarie e dunque esemplari. È qui che Kapadia introduce i suoi grandi temi sociali: il conflitto interreligioso, che strazia e divide la comunità; i matrimoni combinati, che pesano sui cuori di chi sogna l’amore; la questione abitativa, con la città dei ricchi che si mangia poco a poco i quartieri popolari. E poi la diaspora, naturalmente, che è una fabbrica infernale di vedove a metà, eternamente fedeli a sposi fantasma. […]

Maria Sole Colombo, FilmTV