Io, Daniel Blake


20/01/2017 - 21/01/2017

Proiezione unica ore 21

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Regia: Ken Loach
Interpreti: Dave Johns (Daniel Blake), Hayley Squires (Katie), Dylan McKiernan (Dylan), Brianna Shann (Daisy), Kate Rutter (Ann)
Origine: Belgio, Francia, Gran Bretagna
Anno: 2016
Soggetto: Paul Laverty
Sceneggiatura: Paul Laverty
Fotografia: Robbie Ryan
Musiche: George Fenton
Montaggio: Jonathan Morris
Produzione: Sixteen Films
Distribuzione: Cinema
Durata: 100


Altro che il solito Loach. Andate a vedere I, Daniel Blake, vita d’un falegname 60enne costretto a ritirarsi per infarto ma che aiuta col cuore una giovane ragazza madre: ne resterete conquistati per la violenza sofferta della sua poesia. Nonostante tutto, c’è poesia. E ci sono la miseria di Newcastle, le insidie della burocrazia, il cinismo del potere, la disillusione di chi non vede happy end.

Loach trova accenti di verità che non è solo adesione ideologica ma si trasforma in qualcosa di spirituale, tanto che nella scena centrale si pensa al tragicomico Charlot. Grande film d’un autore (e di uno sceneggiatore, Laverty) che crede ancora negli uomini e nel collante della loro umanità, alla cristiana solidarietà del silente olocausto di quelli che lottano per tenere in vita con un tozzo di pane la dignità.

(Maurizio Porro – Il Corriere della Sera)

Palma d’oro a Cannes, il nuovo film di Ken Loach arriva ai tempi supplementari nella filmografia del regista inglese. “Ken il rosso”, infatti, aveva deciso di chiudere bottega. Però l’indignazione per come stanno andando le cose in Gran Bretagna, e nel resto dei paesi tecnocratici, lo ha convinto a realizzarne un altro capitolo, che condensa in forma di epitome tutta la sua poetica e la sua militanza cinematografica. Il Daniel Blake del titolo è un carpentiere di Newcastle che, all’alba della sessantina, si ritrova senza la possibilità di guadagnarsi la vita a causa di un problema di salute. Dopo un arresto cardiaco, il medico gli ha proibito di lavorare e Daniel si rivolge all’assistenza pubblica (appaltata dallo Stato a società private che hanno tutto l’interesse a non assegnare sussidi) per ottenere il riconoscimento dell’invalidità. Non sa a cosa va incontro. Maltrattato e umiliato, l’uomo è preso in una trappola burocratica infernale: dovrà iscriversi alla disoccupazione e cercare lavoro, in attesa che la sua domanda sia respinta per poter fare ricorso. Nell’attesa Daniel prende le difese di Katie, madre nubile di due bambini, che come lui non riesce a ottenere un sussidio ed è praticamente alla fame. Nella sua avventura kafkiana, un ostacolo quasi insormontabile si rivela l’informatica, autentico strumento di dissuasione di massa usato dal potere per fregare meglio i proletari digiuni di tecnologia. Per lui, che non conosce il web e non sa usare un mouse, compilare una domanda è impresa impossibile: e il film ce lo mostra in scene tinte di amaro humour, in cui anche spettatori meno inesperti del protagonista potranno riconoscersi. Scritto dal fedele Paul Laverty, Io, Daniel Blake è un film nobilmente indignato, impegnato e frontale: forse, fino all’eccesso. Senza tornare sul discorso di una Palma d’oro più o meno meritata, bisogna riconoscere che Loach usa un linguaggio quasi elementare; che, tuttavia, risponde in pieno al suo progetto. Lui dichiara di voler osservare i personaggi con empatia, come da un angolo dell’ambiente in cui questi si trovano: mantenendo la giusta distanza senza però perdere la capacità di emozionarsi. E così è.

Certo, si possono preferire film come Due giorni, una notte dei Dardenne o La legge del mercato di Brizé, altrettanto politici ma che coniugano l’impegno con un linguaggio più personale. Ed è anche vero, in qualche misura, che Loach si lascia prendere dallo scrupolo dimostrativo, viaggiando sul crinale scivoloso del didatticismo. Però il suo cinema resta dannatamente efficace; inoltre conserva una dimensione emotiva che gli altri non hanno (vedere, per tutte, la scena in cui Katie e Daniel vanno a cercare cibo presso un’associazione di carità).

La cosa che qui soddisfa meno riguarda, piuttosto, la sceneggiatura di Laverty. Perché le storie del maturo Daniel e della giovane Katie vorrebbero rispecchiarsi l’una nell’altra: come a mostrare l’inferno del proletariato post-moderno attraverso due ottiche differenti, ma complementari. E invece prendono direzioni centrifughe, viaggiando in parallelo e rincorrendosi lungo un montaggio non sempre convincente.

(Roberto Nepoti – La Repubblica)