Agnus Dei


27/01/2017 - 28/01/2017

Proiezione unica ore 21

Acquista i biglietti


Regia: Anne Fontaine
Interpreti: Lou de Laâge (Mathilde), Agata Buzek (Suor Maria), Agata Kulesza (Madre Superiora), Vincent Macaigne (Samuel), Joanna Kulig (Irena)
Origine:
Anno: 2016
Soggetto:
Sceneggiatura: Sabrina B. Karine, Alice Vial, Anne Fontaine, Pascal Bonitzer
Fotografia: Caroline Champetier
Musiche: Grégoire Hetzel
Montaggio: Annette Dutertre
Produzione: Mandarina Cinema, Aeroplan Film, Anna Wloch
Distribuzione: Good Films
Durata: 110


Dopo il bellissimo Ida, arriva dalla Polonia (prodotto però soprattutto con capitali francesi) un altro film che scava in un passato di angosce e paure e che chiama in causa – come già il film di Pawlikowski – le responsabilità del Comunismo e della Chiesa. Il primo per il peccato di violenza e sopraffazione, la seconda per quello di omissione e ipocrisia.

Agnus Dei inizia nel dicembre del 1945. Nelle primissime scene vediamo una giovane religiosa, Maria (Agata Buzek), avventurarsi da sola fuori da un convento dove le altre consorelle danno l’impressione di essersi barricate (per uscire, non usa nemmeno il portone ma si apre un pertugio tra alcune assi) e sfidare il freddo dell’inverno per cercare un medico. Ma che non sia «né polacco né russo» specifica al ragazzino cui chiede aiuto. Che la porterà a un ospedale gestito dalla Croce Rossa francese dove la giovane aiutante Mathilde (Lou de Laage) accetta di riaccompagnarla in convento. Maria non parla e non spiega ma Mathilde non impiegherà molto a capire il problema: una religiosa, suor Zofia (Anna Prochniak) è incinta, vicinissima al parto.

Lo spettatore che non ricorda bene le atrocità seguite alla fine della Seconda guerra mondiale, quando i vincitori ribadirono la propria superiorità approfittando delle donne inermi (in Italia, Moravia vi scrisse La ciociara), con i soldati dell’Armata Rossa in primissima fila in questa violenza, potrebbe restare un po’ sconcertato dalla scena. Ci vorrà un po’ perché la verità venga esplicitata, ma questa reticenza (dei personaggi e della sceneggiatura) è coerente con la messa in scena della regista Anne Fontaine, che non vuole tanto “raccontare” un episodio storico o “squarciare” il velo su una realtà a lungo occultata, ma piuttosto portare lo spettatore a condividere quelle atmosfere, quelle paure, quelle angosce.

Ecco allora la macchina da presa che pedina le suore nel convento, le segue nei loro momenti di preghiera e di canto, come se nulla fosse successo. Che qualcosa non funziona lo si capisce dalla contrarietà della madre superiora (Agata Kulesza), dalla sua ossessiva prudenza, dal suo imporre una disciplina più che draconiana. Ogni tanto il film si sposta nel campo medico gestito dai francesi, dove Mathilde deve cercare di nascondere le sue assenze quando si reca al convento, dove scopriamo qualcosa delle sue origini (figlia di operai, educata nel comunismo di famiglia, arruolatasi prima di finire gli studi di medicina) mentre il suo diretto superiore, il dottore Samuel Lehmann (Vincent Macaigne), cerca di corteggiarla facendo breccia nella sua corazza di silenzi e di reticenze. E dove in una scena di quotidiana violenza scopriamo quello che le suore hanno subito perché anche Mathilde rischia la stessa sorte, quando una notte torna troppo tardi dalle sue visite alle suore e viene fermata a un posto di blocco dell’esercito sovietico.

Anne Fontaine, che ha scritto anche la sceneggiatura con Pascal Bonitzer e Sabrina B. Karine, filma tutto con una “distanza” che raffredda le emozioni ma non l’insinuante senso di angoscia e che amplifica il giudizio morale. E insieme l’opprimente cappa di rassegnata disperazione che gravava allora sulla Polonia.

Perché il film vuole soprattutto mostrare i comportamenti di ognuno, nel modo più “neutro” possibile, e lasciare allo spettatore la possibilità di risalire alle ragioni, alle spiegazioni e alla fine anche ai giudizi. Alla regista interessa che sullo schermo ci siano le ragioni e le contraddizioni di tutti, da quelle di Mathilde che rivendica le sue scelte comuniste ma che deve fare i conti con i comportamenti dei soldati dell’Armata a quelle di Lehmann, ebreo che ha avuto la famiglia distrutta a Bergen-Belsen e che odia i polacchi perché non avevano fatto niente per evitare il massacro del ghetto di Varsavia. Fino naturalmente a quelle della madre superiora, a cui interessa di più il “buon nome” del convento e l’opinione degli altri piuttosto della salute delle sue consorelle e delle vite che portano in grembo.

Alla fine saranno le sue decisioni e le sue scelte a colpire di più, perché rimandano a una religiosità distorta e punitiva, rassegnata e passiva. E che la sorridente fotografia che chiude il film, inviata dalle suore a una Mathilde ormai lontana, non potrà certo cancellare. Perlomeno dalla memoria dello spettatore.

(Paolo Mereghetti – Il Corriere della Sera)